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Quel poco che in più di quarant’anni mi pare di aver capito del Natale lo devo a Matisse, a un’immagine che non mi si allontana dal cuore. Capitò l’estate del 1992, anno della mia Messa; entrammo nella piccola Cappella delle Domenicane di Vence, paesotto della Provenza francese lungo la Costa Azzurra, e la suora ci aprì ad un gioiello impensabile: il ciclo che Matisse ormai anziano e malato aveva dipinto per la Cappella del Rosario di Vence come dono per Monique Bourgeois, infermiera alle prime armi, che lo aveva accudito alcuni anni prima di diventare Suor Jacques-Marie. Matisse regalò a lei e al mondo uno spazio di luce vera. Ecco quello che mi colpì più di ogni cosa, quel giorno di Luglio.
Era la Madonna col Bambino. Con quello stile a pochoir del disegno nero su sfondo bianco; nulla di più.
Un’apparente modestia di tratto che indicava il punto in cui raccoglierci: una Madre e appena il suo Bambino fra le braccia; sì perché senza quel Bambino la Madre non avrebbe ragione di esistere. La Madre nel suo gesto di presentarlo al mondo e il Bambino con l’abbraccio già a forma di croce aperta, voluta, gioiosa.
Volti ovali che dicono tutto, senza i lineamenti degli occhi, del naso, della bocca; solo i contorni del viso.
Con due tratti Matisse aveva colpito al cuore il Cristianesimo: un Dio che sciala nel quadro, ma che risparmia sulla cornice.
Un dono da capogiro senza carta regalo.
C’era tutto quello che i Vangeli raccontano del Natale, cioè quasi nulla, una sobrietà inaudita. Dio si fa uomo e tutto è detto con pochissimi particolari: una madre sola e segnata dal mistero, la nascita avvenuta nei dintorni di Betlemme e il bambino posto in una mangiatoia usata per le bestie. Sistemazione precaria, inaccettabile anche per i pastori poveri dei beduini che avevano almeno la fierezza di una tenda propria.
Ma in quei racconti c’è tutto quello che Dio voleva dire dal profondo dei secoli: ciò che conta per lui e cosa sia veramente vivere: pochi tratti neri su sfondo bianco.
Ai pastori si diede la sospirata notizia della nascita del Salvatore: “Troverete un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia” .
Così fu: non videro altro che un bambino fasciato. Tutto qua?
Dove stava la gloria che quei pecorai avevano sempre sentito cantare nelle antiche profezie? A loro spese iniziava la conversione del mondo e l’annuncio di una gloria capovolta in cui si narra di un Dio semplice che non cura la scorza per non sedurre: vuole l’adesione e lo slancio dei liberi, non la sottomissione dei convinti dall’evidenza.
Tutto qua: un bambino fasciato, e sarà sempre così per Dio fino alla consumazione dei secoli, nessuna straordinarietà, neppure per il bene. Si chiarirà più tardi la storia di quel Bambino, nato ai margini del grande Impero di Roma e del suo sfarzo avvezzo ad organizzare censimenti per avere la misura del proprio potere; e dalle feritoie di quella Luce intuiremo qualcosa di più.
Sì, quel Bambino avrebbe da grande preferito la provvisorietà della strada alla sicurezza di una casa e il passo da pellegrino alla sedentarietà di una vita stanziale; il denaro non lo avrebbe mai tentato, perché sua mamma lo aveva allevato al pensiero che i poveri sono i veri clienti di Dio e di Lui solo si fidano; alla parola avrebbe preferito il silenzio e si sarebbe negato ai gesti isolati e clamorosi, perché quelli non intaccano nulla, anzi entrano nel sistema e lo servono.
Vivrà con sobrietà di parola perché le cose e gli uomini già gridano da sé, basta saper ascoltare; sobrietà di sguardi, appena quelli necessari a risuscitare tristezze, perché anche l’occhio può ferire con le sue esagerazioni; sobrietà di rapporti, perché solo ciò che è leggero salva, il resto intossica e imbavaglia; e dato che tutto esiste fidandosi del Padre, compresi i corvi e gli effimeri fiori campestri, chiederà la sobrietà nelle preoccupazioni -tanto uno che ci guadagna? mica può allungare la sua vita, che è il problema di fondo per tutti!  Il Vangelo tramanda una sua intima esplosione di gioia col Padre, quasi l’unica: “Che tu sia benedetto, Padre, perché hai tenuto nascosto queste cose ai sapienti e ai colti e le hai rivelate ai piccoli”. Che poi tradiva la certezza di fondo del suo animo: è sempre scivolosa l’amicizia con quelli che contano e con gli intellettuali perché fa di te uno schiavo e sei sempre a mendicare, mentre coi poveri puoi anche dare. Anche i miracoli; nulla di colossale, piccoli segni messi lì per sanare,aggiustare, ridare bellezza: non fermò il sole come Giosuè, non aprì le acque come Mosè, non creò il frutto della vite, non collocò luna e stelle nel cielo. Diede la vista ai ciechi e questo era il suo modo di inventare la luce.

Non scrisse, non dettò, non costruì. Non emise giudizi; salvò una donna dalla lapidazione chiedendo a chi si sentisse puro dal peccato di farsi avanti con le prime pietre. Sapeva che gli uomini lanciano più volentieri le seconde… E sapeva che si schierano sempre col più forte; così scelse di stare dall’altro lato.
Gli capitasse di nascere oggi, forse sarebbe gettato a mare insieme a sua madre, da un barcone di immigrati sulle coste di terre già sazie e annoiate.
L’incanto di Matisse e della sua ‘Madre col Bambino’ mi aveva soggiogato soprattutto in un punto: il Bambino davanti alla Madre, il Bambino sovrapposto alla Madre, la Madre dietro.
In fondo così è il Natale dei Vangeli per quella Madre e così è tutto il tragitto di Maria: non una parola, non un gesto, mai posizioni centrali, sempre nell’ombra.
C’è un posto più luminoso dell’ombra di Gesù?

Matisse - Madonna col Bambino

don Fabio

C’era una volta un presepe...

...di gente e di pietre che raccontava la storia della nascita di Nostro Signore …nel paese dei trulli! Vecchie strade che tornano alla vita, camini anneriti da antica fuliggine che ardono di fuoco nuovo, piazzette dimenticate da tempo che brulicano di personaggi, dimenticate nenie che tornano a cullare i sogni dell’uomo, antichi odori e sapori che mondano i sensi e il cuore! C’era una volta un presepe di gente e di pietre e ci sarà ancora”